di Michele Paris

Il dato più rilevante della prima apparizione al di fuori dei confini americani del neo-presidente Obama risiede senza dubbio nell’abbandono dei toni manichei espressi negli ultimi anni dal suo predecessore sui temi dei conflitti internazionali e di quelli paternalistici riguardo alla necessità di una maggiore apertura al mercato da parte dei paesi europei. Certo, gli sconvolgimenti prodotti dalla crisi economica negli ultimi mesi rendevano inevitabile una sorta di mea culpa del nuovo inquilino della Casa Bianca per il perseguimento di una deregulation sfrenata dall’altra parte dell’oceano. E, allo stesso modo, ampiamente prevista era l’inversione di rotta rispetto all’unilateralismo nella gestione della politica estera di Washington durante i due mandati di George W. Bush. Nondimeno, il sollievo provato dagli americani per l’accoglienza tutto sommato positiva ricevuta finalmente in Europa dal loro presidente, è stato tale da far quasi passare in secondo piano i risultati non del tutto soddisfacenti della trasferta e le divisioni anche profonde emerse nei rapporti con gli alleati.

di Eugenio Roscini Vitali

Non era difficile prevedere che dalla nascita di questo nuovo governo la svolta a destra sarebbe stata assoluta, come assoluto sarebbe stato il silenzio di Benyamin Netanyahu sul processo di pace israelo-palestinese e sulla teoria del doppio Stato. Un silenzio al quale ha invece dato voce il nuovo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che non ha esitato a riaffermare quanto già sostenuto in campagna elettorale, cioè che Israele non è assolutamente legato alle intese sottoscritte da Ehud Olmenrt ad Annapolis e che nel vicino Medio Oriente non c’è spazio per uno Stato palestinese: “Anche se dovessimo ripetere la parola pace venti volte al giorno non avremo la pace, più faremo rinunce e più la situazione peggiorerà”. Una destra sorda quindi, sia all’appello del presidente Shimon Peres, che ha chiesto a Netanyahu i massimi sforzi per continuare il progetto di stabilizzazione sostenuto da Usa ed Europa, sia alle proteste dell’Autorità palestinese che, per bocca di Mahmoud Abbas, ha denunciato le affermazioni di Lieberman come una sfida agli Stati Uniti: “La comunità internazionale dovrebbe rispondere a queste provocazioni che minacciano la sicurezza e la stabilità della regione”.

di Mario Braconi

Molti dei giornalisti italiani convinti di raccontare verità scomode per il potente di turno dovrebbero fermarsi un attimo. E riflettere sull’immenso valore della testimonianza che stanno dando al mondo i loro colleghi russi che continuano a fare il proprio lavoro, spesso rimettendoci la pelle. La libertà di stampa e di espressione in Russia sono a rischio da anni: oltre ai quotidiani, basta scorrere il report pubblicato a febbraio da Amnesty International su questo argomento: in un anno ben cinque giornalisti sono stati assassinati (tra di essi Anastasia Baburova, praticante presso la ’Novaia Gazetà, uccisa il 19 gennaio scorso dal killer a volto coperto che aveva appena eliminato l’avvocato ed attivista per i diritti umani Stanislav Markelov, che rappresentava Anna Politkovskaia). Alla stampa, in generale vengono regolarmente riservate minacce, quando non percosse, dalla polizia, che si fa beffe dei cartellini identificativi che i giornalisti portano per farsi riconoscere. Il processo ai presunti assassini della giornalista Anna Politkovskaya è stato trasformato in una barzelletta, non si capisce bene se per incapacità investigativa, per dolo o per tutte e due le cose assieme.

di Michele Paris

Il giudice spagnolo Baltazar Garzón, salito agli onori della cronaca internazionale nell’ottobre del 1998, quando spiccò un mandato di cattura nei confronti di Augusto Pinochet Ugarte, allora convalescente in Gran Bretagna, ha ottenuto dal tribunale di Madrid l’affidamento di un’indagine nei confronti di sei esponenti di spicco dell’amministrazione Bush. Le persone coinvolte - tra le quali spicca l’ex Ministro della Giustizia Alberto Gonzales - sarebbero responsabili della violazione delle leggi internazionali sulla tortura in riferimento al trattamento dei prigionieri nel carcere di Guantánamo. Un caso poco più che simbolico, secondo alcuni, ma che potrebbe contribuire a fare chiarezza su alcune responsabilità del precedente governo americano sugli abusi compiuti in nome della lotta al terrorismo e che Obama invece continua a ritenere non debbano essere investigate.

di Mario Braconi


Il due aprile, presso l’ExCel Center di Londra si terrà il G-20: almeno nelle intenzioni degli organizzatori, l’evento (dal costo di 19 milioni di sterline) consentirà ai rappresentanti delle venti nazioni che sviluppano complessivamente il 90% del prodotto interno lordo, l’80% del commercio e i due terzi della popolazione globali di accordarsi sulle azioni da intraprendere per “stabilizzare i mercati finanziari, consentire a famiglie ed imprese di attraversare la recessione, riformare ed irrobustire i sistemi della finanza e dell’economia globali per impedire nuove crisi finanziarie ed orientare l’economia globale verso lo sviluppo sostenibile.” Stabilità, Crescita e Lavoro, dunque, saranno al centro delle riflessioni dei Grandi, come del resto recita il claim della conferenza. Se l’implosione di un sistema finanziario intossicato dalla idolatria del debito ed eccitato oltre ogni ragionevolezza dalla furia speculativa non avesse prodotto la più grave recessione della storia, quello di Londra, forse, sarebbe stato l’ennesimo appuntamento a porte chiuse tra potenti, apparentemente lontanissimo dalla vita quotidiana dell’uomo della strada.


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