di Carlo Benedetti

Una Bielorussia divisa in “tre fronti militari” con generali che si chiamavano Jukov e Rokossovskij: era una guerra tutta sovietica che dall’Est spingeva indietro i nemici nazisti che venivano dall’Ovest. Oggi l’attacco continua ed ha un carattere prettamente ideologico. Perché la Bielorussia post-Urss è ancora considerata come un baluardo del vecchio impero di Mosca. Un collegamento che a tutt’oggi appare pur sempre pericoloso. Vero e proprio seguito della guerra fredda. Con analisi politologiche e resoconti giornalistici che portano questi titoli: Il buio regna a Minsk; Lukashenko è una sfida per l’Europa; Il paese chiede democrazia; L’Europa è vietata a Lukashenko; Sanzioni della Ue per il governo bielorusso; Minsk è il governo dei manganelli; L’ultima dittatura d’Europa…

di mazzetta

Assistere all'ondata di arresti eccellenti che ha scosso la Turchia e alle conseguenti polemiche che li hanno seguiti, provoca robusti deja-vu. Gli arresti sono scaturiti dallo svelamento di una rete di potere ultra-nazionalista dedita ad attentati, golpe ed altre amene attività. Dalla struttura di Ergenekon, rete di origine atlantica trasformatasi poi nel baricentro di quello che è stato chiamato “lo stato profondo”, le indagini hanno preso le mosse fino a delineare una lunga serie di reati gravissimi commessi da importanti personalità turche. I fatti non ti esauriscono tuttavia nel contrasto ad una rete accusata di ricorrere sistematicamente alla violenza per perseguire i proprio obiettivi politici ed economici. La grande retata è scattata infatti a pochi giorni dall'attesa relazione del Procuratore turco di fronte alla Corte Costituzionale, relazione che dovrebbe provare le accuse di “lesa secolarità” da parte dell'AKP, il partito di ispirazione musulmana che esprime il premier ed il Presidente della Repubblica. L'accusa, se riconosciuta fondata, porterebbe al paradossale bando del partito di maggioranza e all'esclusione del Premier e del Presidente della Repubblica dalla vita politica.

di Fabrizio Casari

Ingrid Betancourt è libera. Dopo più di sei anni di prigionìa nella giungla colombiana, la senatrice pacifista e ambientalista, divenuta da anni una icona della lotta per una Colombia diversa, è tornata ad abbracciare i suoi cari e quanti, in questi anni, per la sua liberazione si erano battuti senza sosta. Un’operazione d’intelligence dell’esercito colombiano ha riportato a casa lei ed altri quattordici ostaggi in mano alle Farc, tra i quali tre militari statunitensi e dieci militari colombiani. La liberazione di Ingrid Betancourt è una di quelle notizie che fanno bene. A tutti coloro che credono che qualunque conflitto non possa avere come vittime principali gli innocenti, a coloro i quali ritengono che il sequestro di chi a quella guerra è estraneo sia solo una odiosa manifestazione di debolezza isterica e, soprattutto, a quanti pensano che anche la più dura delle guerre dovrebbe avere delle regole comportamentali, prima fra tutte quella di saper distinguere tra belligeranti e testimoni, tra colpevoli e innocenti, tra nemici e vittime.

di Michele Paris

Con un’altra decisione che ha profondamente diviso i suoi 9 membri, dopo aver decretato qualche settimana fa la legittimità del metodo dell’iniezione letale nella procedura di condanna a morte, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha spazzato via la legge sul bando delle armi da fuoco per uso personale nel District of Columbia, stabilendo invece, per la prima volta nella storia del Paese, che il Secondo Emendamento garantisce tale diritto. La decisione ha così posto fine a decenni di dibattute sentenze nei vari tribunali locali, negando che l’emendamento approvato oltre due secoli fa stabilisca qualche relazione tra il diritto al possesso di un’arma al servizio svolto in una milizia o in un esercito regolare, come suggerisce invece il suo dettato.

di Eugenio Roscini Vitali

Malgrado gli appelli e il boicottaggio della comunità internazionale, l’ex eroe anticolonialista Robert Mugabe ha vinto; il segreto del successo è stata la brutale repressione elettorale messa in atto dalla leadership militare che ha costretto Morgan Tsvangirai, vincitore del primo turno, a ritirarsi dalla corsa presidenziale. Dall’ambasciata olandese della capitale Harare, Tsvangirai ha chiesto al mondo di non riconoscere il risultato di questa “farsa” e ha denunciato le intimidazioni a cui è stata sottoposta la popolazione. Metodi che ricordano i sistemi applicati nelle peggiori dittature: poliziotti paramilitari che lavorano al servizio del regime; Forze Armate che pattugliano le strade della capitale; militanti dello Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (Zanu-Pf), il partito che sostiene Mugabe, che hanno scortato gli elettori ai seggi e minacciato chi protestava contro il regime. Questa è la fotografia dello Zimbabwe, questo è il vero volto di Robert Mugabe, un dittatore che da 28 anni tiene in mano le redini di un potere che non ha nessuna intenzione di cedere e che difficilmente qualcuno riuscirà a strappargli.


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