di Michele Paris

A pochi mesi dalla scadenza del suo secondo mandato presidenziale, George W. Bush sta inviando significativi segnali di un cambiamento di rotta nella politica estera e nella gestione dei rapporti con i paesi già facenti parte del famigerato “asse del male”. A differenza di quanto affermato con forza dallo stesso presidente americano fino a pochi mesi fa, nelle ultime settimane gli USA stanno infatti intraprendendo importanti azioni, sia pure molto caute, volte ad avviare un dialogo con i governi di Corea del Nord e Iran. E lo stesso atteggiamento intransigente in relazione alla presenza militare statunitense in Iraq sta mostrando le prime crepe sull’onda delle pressioni esercitate dal governo di Baghdad per ottenere la fine dell’occupazione in tempi ragionevoli. Se l’ammorbidimento di un presidente uscente al termine del proprio mandato sui temi degli affari internazionali ha degli illustri precedenti negli Stati Uniti, la nuova e a tratti sorprendente strategia della Casa Bianca rischia però di mettere in serio imbarazzo il candidato repubblicano John McCain, il quale ha investito gran parte delle proprie speranze di vittoria su una gestione intransigente della politica estera americana, modellata in gran parte sull’impronta data ad essa negli ultimi sette anni dal vicepresidente Dick Cheney.

di Carlo Benedetti

Le lingue minori partono all’attacco. Alzano la testa - con una pluralità di posizioni - e chiedono riconoscimenti planetari. E’ il caso di quanto avviene in Europa dove si fa sentire la voce delle popolazioni ugro-finniche che trovano una sponda ideale in Russia e precisamente in Siberia. E’ qui, infatti, che si danno appuntamento per un congresso dei loro popoli. La sede prescelta è nella zona occidentale e precisamente nella città di Khanty-Mansiysk, abitata da popolazioni ugro-finniche: Khanty e Mansi. Si avvia, pertanto, un dialogo interculturale che risulta subito essere anche un importante strumento per il superamento dell’estremismo e dell’intolleranza religiosa. Tutto ciò riveste - per la stessa Russia - un significato particolare tenendo conto che nel paese convivono più di 160 popoli diversi. E proprio grazie a questo spirito unitario la nazione russa è riuscita a superare le tante prove della sua storia.

di Alessandro Iacuelli

E' stato arrestato Radovan Karadžic, in cima alla lista dei più ricercati per i crimini di guerra nella ex-Yugoslavia, dopo oltre dieci anni di latitanza, tredici per la precisione. L’arresto è stato annunciato dal presidente serbo Boris Tadic, Karadžic è stato localizzato e arrestato in Serbia la sera di lunedì, l'operazione è stata compiuta dalle forze di sicurezza di Belgrado. Dai primi comunicati sembra che sia stato arrestato su un autobus, nella capitale serba. Le sue responsabilità sono elevatissime: è noto al pubblico perchè è l'uomo che ordinò di sparare sui civili durante l'assedio di Sarajevo, compensando i cecchini con 50 marchi tedeschi per ogni vittima, ma è anche l'uomo che diede il via libera al massacro di 7.800 persone a Srebrenica nel luglio 1995, sotto gli occhi dei caschi blu olandesi, che non mossero un dito per evitare il più grande sterminio avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Oltre questo, le responsabilità di Karadžic sono ben altre, e vanno oltre l'immaginazione.

di Eugenio Roscini Vitali

La linea di confine che fino a qualche anno fa separava la Cecenia dall’Inguscezia e, al tempo stesso, divideva una tragica guerra da una falsa idea di pace e stabilità, si è definitivamente frantumata. La terra che Putin voleva trasformare in “modello caucasico di sicurezza” è diventata una polveriera intrisa di odio, vendetta, omicidi, torture e sparizioni, una sporca guerra che ripropone i metodi e le strategie già viste a Grozny, Selkovskaja, Urus-Martan, Urdjuchoj, Dechesty. Per i russi l’Inguscezia si è trasformata in un nuovo laboratorio dove l’esercito mette a punto le sue contromisure all’insurrezione, dove la giustizia lascia impuniti i responsabili delle repressioni, dove la politica rispondere alla resistenza con la sistematica violazione dei diritti umani. Le strade di Nazran, Karabulak, Malgobek non emanano più solo l’odore della miseria, della corruzione e della povertà; ora in Inguscezia si respira la stessa aria del Caucaso, quella impregnata di morte, sangue e di paura.

di Ilvio Pannullo

Il nome in codice era “Glorious Spartan 08”, il teatro operativo era il tratto di mare a sud est dell’isola di Creta. È in questo splendido angolo di Mediterraneo che l’aviazione israeliana ha simulato - dal 28 maggio al 18 giugno di quest’anno - l’attacco all’Iran. Oltre cento caccia F16 e F15, con l’ausilio di aerei per il rifornimento in volo, hanno condotto una missione di 1.500 chilometri; la stessa distanza che divide lo Stato ebraico dall’impianto nucleare di Natanz, in Iran. I jet hanno sganciato bombe, condotto raid contro i radar e attuato manovre evasive. In loro supporto anche velivoli per la guerra elettronica ed elicotteri che trasportavano i commandos dell’unità speciale 5101, conosciuta come Shaldag, e gli incursori della Sayeret. Gli israeliani, di solito estremamente riservati su quello che combinano, hanno passato al New York Times le informazioni su “Spartan 08” accostando le manovre a un possibile blitz contro l’Iran. E hanno spiegato, con l’abituale pragmatismo, quali fossero gli obiettivi. Il primo - tecnico - era quello di esercitarsi in un raid a lungo raggio. Il secondo - politico - era ribadire agli Stati Uniti e ai governi occidentali che l’opzione militare non è poi così lontana. Se i ripetuti tentativi negoziali falliranno, non resterà che la forza. E gli israeliani sono pronti.


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