di Giuseppe Zaccagni

Il Dalai Lama (al secolo Tenzin Gyatso, anni 72, quattordicesimo capo assoluto del buddismo tibetano, chiamato dai suoi fedeli "Santo Signore", "Gloria Gentile", "Difensore della Fede", "Oceano di Saggezza") è a Milano. E’ arrivato da Delhi e il suo programma (in compagnia dell’amica Laura Gancia e del capo del Tibet Bureau Kelsang Gyaltsen) prevede varie tappe italiane. L’obiettivo di questa sua nuova incursione - a partire da quel 1959, quando rifiutò di collaborare con il governo di Pechino - è sempre lo stesso: una lotta decisa contro la Repubblica Popolare Cinese nel nome dell’indipendenza del Tibet. Una posizione, questa, che caratterizza il suo esilio in India dove ha praticamente formato un governo ombra che sviluppa, oltre ad una missione religiosa sul piano mondiale, anche un ruolo politico e diplomatico. Tenzin Gyatso arriva quindi nel nostro Paese con un obiettivo ben preciso che non può che suscitare reazioni di prudente scetticismo: porre all’attenzione del mondo occidentale la questione del rapporto tra Pechino e Lhasa, capitale tibetana della regione “ribelle”.

di Eugenio Roscini Vitali

Secondo una denuncia pubblicata nei giorni scorsi da Amnesty International, il sistema giudiziario ugandese ignora, nega o cerca di mettere a tacere, le violenze che vengono perpetrate contro donne e ragazze che vivono nel nord del Paese, proteggendo addirittura le persone sospettate di questo disumano e vergognoso crimine. Le accuse mosse dall’organizzazione umanitaria includono stupri, aggressioni fisiche e abusi sessuali sui minori e sono documentate con la testimonianza delle stesse vittime che raccontano i casi di violenza di cui sono state vittime. Per documentare il rapporto, lo scorso agosto Amnesty International ha visitato cinque distretti del nord: Gulu, Amuru, Kitgum, Pader e Lira. Qui, i ricercatori hanno riscontrato la quasi totale assenza delle strutture dello Stato, lo scarso numero di distretti di polizia, il basso livello di preparazione delle forze di sicurezza e l’insensibilità riservata ad argomenti quali i diritti umani e le traumatiche vicende di violenze sessuali.

di Luca Mazzucato

Il summit di Annapolis non sembra aver avuto il minimo effetto sulla politica israeliana, né sull'opinione pubblica della maggioranza ebraica della popolazione. Il commento più diffuso è di bonaria condiscendenza verso Bush: l'alleato americano ha chiesto a Olmert di prestarsi ad un piccolo spettacolo mediatico e sarebbe stato scortese rifiutare. Una volta chiuso il sipario, si torna alla normalità dell'Occupazione. Questo il sentimento prevalente, insieme ad un incremento di popolarità per Olmert, che sembra tornato ad un gradimento in doppia cifra per la prima volta dalla guerra in Libano. Finita Annapolis, Olmert si è affrettato a congelare le aspettative dei pacifisti, mentre l'unica novità viene dal Labor Party, che propone una compensazione per i coloni che abbandonino volontariamente la West Bank. L'antefatto accade venerdì scorso, dopo la conclusione della conferenza-lampo, quando gli Stati Uniti presentano una risoluzione al Consiglio di Sicurezza, per ufficializzare l'accordo raggiunto tra Olmert e Abbas, che prevede un calendario di incontri tra i due leader. Ma il governo israeliano, venuto a conoscenza della risoluzione, obbliga Bush a ritirarla immediatamente: nonostante fosse del tutto innocua nel merito, Israele vuole evitare in ogni modo che l'ONU intervenga in questioni che considera “interne”: è noto il pregiudizio pro-palestinese del Consiglio di Sicurezza...

di Agnese Licata

L’Africa cresce, dicono. Del 5,4 per cento, pare. Una percentuale che si riferisce al 2005 ma che dovrebbe venire confermata anche per l’anno che si va a chiudere. Addirittura, un tasso medio superiore a quello registrato da tante nazioni occidentali. Giusto per rimanere in casa, basta dire che l’Italia sarebbe ben contenta di chiudere il 2007 con un più 2,2 per cento. Un successo, insomma, quello africano. Il segnale di un’inversione di tendenza da sempre attesa. Se poi a dire che “molte economie africane sembravano aver voltato pagina e aver intrapreso il cammino di una crescita economica più veloce e costante” è niente meno che la Banca mondiale (Bm), come si fa a non esultare, a non cadere nell’illusione che il Continente nero si stia lentamente affrancando da quella povertà che lo affligge? Ma, a guardar bene, il rapporto che la Bm ha reso noto negli scorsi giorni - Africa Development Indicators 2007 (Adi 2007) - è poco più di uno spot pubblicitario.

di Carlo Benedetti

Vince e stravince sul piano interno. Batte tutti quei record che avevano caratterizzato le consultazioni elettorali del periodo sovietico. Si incorona capo assoluto del Paese pur senza essersi messo in lizza. Ottiene un plebiscito che è pari ad un’assicurazione a vita. Diviene, di conseguenza, un monarca che, per dirla con il nostro Benigni, ha come modello quello vaticano. Un papato che è un dogma. Chi accetta, accetta, gli altri fuori del giro. Non contano e basta. Sono queste, in sintesi, le tante idee che affiorano sul voto di una Russia sempre più dominata da Putin. Intanto l’orgoglio del Paese tocca quote mai registrate. I media battono sul tasto del successo mai visto e su quello dell’unità nazionale mai raggiunta come questa volta. Putin batte tutti. Dimentica di essere, istituzionalmente, un garante costituzionale al di sopra delle parti. Mette così in un angolo il Krusciov del disgelo, il Gorbaciov delle aperture e lo Eltsin delle privatizzazioni. Diviene - grazie alla sua macchina decisionale - l’idolo e l’ideologo di una nuova Russia. Nazionalista ed antiamericano quanto basta. Castigatore di oligarchi e, allo stesso tempo, oligarca anche lui.


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