di redazione

Ancora una beffa per la Roma e per l’Inter. I giallorossi, in cerca di riscatto dopo il disastro dei preliminari di Champions col Porto, si fanno rimontare dalla loro tradizionale bestia nera, il Cagliari, che tanti dispiaceri ha dato ai capitolini negli ultimi anni. E dire che per la squadra di Spalletti, stavolta, sembrava davvero in discesa dopo il rigore trasformato da Perotti al settimo (il terzo in due partite) e il raddoppio di Strootman al primo minuto della ripresa.

I padroni di casa, però, non ci stanno e prima accorciano le distanze con Borriello (al quinto gol contro la sua ex squadra) poi pareggiano con Sau (uno dei migliori in campo), che malgrado l’altezza non titanica beffa di testa tutta la retroguardia romanista a tre minuti dalla fine.

Anche l’Inter aveva bisogno di una rivincita dopo lo scoraggiante 2-0 subito per mano del Chievo alla prima di Campionato, ma contro il Palermo alla fine è solo 1-1. In questo caso, però, sono i nerazzurri a rimontare, con Icardi che risponde Rispoli, a segno con un tiro deviato da Santon. A fornire l’assist per il pari dell’argentino è il neoacquisto Candreva, entrato sullo 0-1 e autore di una prestazione convincente.

Ben diverso l’avvio di stagione delle genovesi e del Sassuolo, tutte a punteggio pieno dopo 2 partite. Nella seconda gara di questa Serie A gli emiliani superano 2-1 il Pescara grazie alle reti di Defrel e del solito Berardi, stesso risultato con cui la Sampdoria batte in rimonta l’Atalanta. Quagliarella su rigore e Barreto di testa rispondono al vantaggio firmato Kessié, al terzo gol dopo la doppietta alla prima giornata contro la Lazio.

Quanto al Genoa, i gialloblù giocano una partita bifronte. Chiudono il primo tempo in svantaggio per 1-0 sul campo del Crotone – è Palladino a segnare il primo storico gol dei calabresi in Serie A, e per lui è anche un gol dell’ex – poi nella ripresa si svegliano di soprassalto e segnano tre volte in meno di venti minuti. Gakpè pareggia all’inizio del secondo tempo, poi Pavoletti festeggia con una doppietta la prima convocazione in azzurro.

La prospettiva di esordire in nazionale fa bene anche a Belotti, che con una tripletta trascina il Torino al trionfo casalingo per 5-1 sul Bologna (le altre reti sono di Martinez e Baselli), riuscendo nell’impresa di segnare 4 gol e sbagliare due rigori in appena due partite. Grave passo indietro per la squadra di Donadoni, che porta a casa come sola nota positiva il gran gol in azione personale di Taider, capace di rubare palla a centrocampo e di scaricare in porta dal limite dell’area.

Ben più limitata nel punteggio, ma altrettanto importante, la vittoria della Fiorentina per 1-0 sul Chievo. I viola festeggiano al Franchi i 90 anni della società grazie al gol di testa firmato da Carlos Sanchez, a segno all’esordio da titolare in Serie A dopo aver marcato appena una rete nelle ultime due stagioni con l’Aston Villa. Bene anche l’Udinese, che al Friuli supera 2-0 l’Empoli con i gol di Felipe e Perica, uno all’inizio e uno alla fine della partita.

Quanto alle partite del sabato, il Napoli dimostra di non avere molti problemi in fase offensiva nonostante la partenza di Higuain. Gli azzurri superano 4-2 al San Paolo un Milan volenteroso ma ancora troppo fragile per essere all’altezza della sua storia recente. Dopo la doppietta nel primo tempo del polacco Milik, che esordisce nel migliore dei modi davanti al pubblico di casa, nella ripresa i rossoneri riescono sorprendentemente a pareggiare con Niang e Suso, ma poi vengono schiantati da un’altra doppietta, stavolta di Callejon. A dir poco ingenui Kucka e Niang, che si fanno espellere costringendo i compagni a chiudere la gara in 9.

Meno pirotecnica la vittoria della Juventus, che all’Olimpico supera di misura la Lazio. A segnare il gol partita è Khedira, abile a sfruttare un duplice errore difensivo dei biancazzurri: prima Biglia svirgola un pallone che avrebbe dovuto rinviare, poi Radu perde la marcatura su un avversario più forte di lui, ma tutt’altro che veloce. La squadra di Inzaghi esce comunque dal campo a testa alta, con la concreta speranza di aver trovato in Bastos un difensore centrale all’altezza di fare reparto con De Vrij ed evitare i disastri dell’anno scorso.   






di redazione

Il tandem Juventus-Roma riprende da dove aveva lasciato, mentre il Milan vince grazie alle prodezze dei suoi unici due giocatori di livello e il Napoli evita la sconfitta facendo segnare l’unica X della schedina. Partono bene Lazio, Sassuolo, Genoa, Sampdoria e Bologna. L’Inter, invece, inizia la stagione con un piccolo incubo. È questo il quadro della prima giornata del Campionato 2016- 2017, caratterizzata come tradizione da una valanga di gol prodotti dalla sagra degli orrori delle difese.

Fra le partite di domenica fanno notizia soprattutto le due stecche di Napoli e Inter. Meno gravi le amnesie degli azzurri, che sul campo del neopromosso Pescara vanno sotto 2-0 nel primo tempo (in rete Benali e Caprari), ma poi recuperano nella ripresa una doppietta di Mertens, entrato dalla panchina.

Assai più preoccupante l’esordio dell’Inter di De Boer, che perde 2-0 sul campo del Chievo, condannata da una doppietta nel secondo tempo di Birsa. Al di là del risultato, i nerazzurri stupiscono per la mancanza di idee e di fiato: non tirano mai in porta, passeggiano per il campo e non reagiscono ai gol subiti, aspettando di perdere.

Va meglio ai cugini del Milan, che nell’unica partita di domenica pomeriggio riescono ad avere ragione 3-2 del Torino. Per 94 minuti l’uomo della partita sembra Carlos Bacca, autore di una tripletta, ma all’ultimo secondo un suo compagno di squadra gli ruba la scena. Si tratta di Donnarumma, che para un rigore a Belotti e condanna alla sconfitta Mihajolovic, che lo aveva lanciato l’anno scorso.

Negli anticipi di sabato Roma e Juve timbrano il cartellino, anche se con qualche problema in più del previsto. I primi due gol della nuova serie A li segna entrambi Perotti su rigore - uno dei due inventato da Dzeko in versione Tania Cagnotto -, che aprono le danze del 4-0 giallorosso sull’Udinese. I friulani recriminano per un rigore non assegnato sullo 0-0.

Si festeggia anche sull’altra sponda del Tevere, anche se con molti patemi. Sul campo dell’Atalanta, la Lazio di Inzaghi chiude il primo tempo in vantaggio per 3-0 (in rete Immobile, Hoedt e l’esordiente Lombardi), ma nella ripresa, invece di gestire, si schiaccia e smette di giocare. I bergamaschi accorciano le distanze con una doppietta di Kessié (20enne ivoriano assai promettente), gentilmente regalata da quel che resta di Marchetti. Cataldi sembra chiuderla per i biancazzurri, ma c’è ancora spazio per il gol della speranza di Petagna. Alla fine è 4-3.

Emozioni anche a Genova, dove nella ripresa il Cagliari passa in vantaggio con Borriello su grande assist di Sau, ma poi si scompone e viene travolta dal Grifone, che passa tre volte con Ntcham, Laxalt e Rigoni. Esordio felice anche per la Sampdoria, che passa 1-0 sul campo dell’Empoli con un gran gol di Muriel, capace di insaccare sotto l’incrocio da posizione defilata.

Chiudono il quadro della prima giornata altre tre vittorie di misura: quelle del Sassuolo a Palermo e del Bologna in casa sul Crotone. Nel primo caso decide il solito Berardi (su rigore), mentre per i rossoblù torna a segnare Destro, che a causa di un lungo infortunio non segnava da febbraio.


di Fabrizio Casari

Non è stato proprio un fulmine a ciel sereno quello che si è abbattuto sull’Inter. Il divorzio consensuale tra Mancini e la società nerazzurra, secondo in carriera, era nell’aria da diverse settimane. Da quando cioè la nuova proprietà cinese aveva fatto capire che i parametri per definire ruoli, competenze e ingaggi, non potevano essere altro se non l’abilità dimostrata con i successi ottenuti sul campo.

E, comunque, gli allenatori lavorano con la squadra e per la società, non viceversa. Sono allenatori e non procuratori, sono CT e non DS. Fanno del loro meglio con ciò che la società gli mette a disposizione. Dunque chi allena la squadra deve essere allineato con gli obiettivi societari, non il contrario.

L’allenatore jesino non aveva lo stesso punto di vista. Riteneva cioè di essere Alfa e Omega del club, cui spettava solo l’onere delle spese e l’onore di fidarsi del suo allenatore. Per questo le scelte sulla campagna di rafforzamento e sulla gestione delle vicende di spogliatoio dovevano essere affrontate dandogli carta bianca e così sia. Inoltre, a Mancini sembrava offensivo disporre di un solo anno di contratto e chiedeva sia il prolungamento che una forte penale per il club in caso di rescissione anticipata! Cose che nemmeno Mourinho chiese a Moratti. Chissà come si scrive arroganza con gli ideogrammi..

Mancini è uomo di indubbio talento e indiscutibile ego, davvero non lo si può negare. Il problema è che i risultati che ha raggiunto all’Inter in questi due anni non hanno nulla né dell’uno né dell’altro. Nessun gioco, non una formazione-tipo, assenza di schemi e incapacità di tenuta psicologica hanno caratterizzato l'Inter allenata dal Mancio e imbottita di giocatori scelti da lui. Chiedere a Mancini di fare la lista della spesa è come mettere un bambino davanti a un negozio di giocattoli: vuole tutto per poi stancarsi presto di quanto voluto.

Fin troppo facile ricordare ciò che avvenne quando la società nerazzurra decise di soddisfarne l’ansia da shopping compulsivo: insieme a Eder, a Perisic, a Murillo e Miranda, a Medel e Kondogbia, sono arrivati anche Shaquiri e Podolsky, Melo e Telles, Santon e Montoya, Osvaldo e M’Vila, Campagnaro e Kuzmanovic. Questo nella sua ultima avventura, mentre Cesar, Mancini e Suazo sono le “perle” della sua prima tranche nerazzurra.

Diciamo quindi che Suning, alle prese con le bizze di Icardi e della sua ambiziosa compagna, che evidentemente ritiene il centravanti la sua unica possibilità di entrare nel mondo del cinema, fosse pure dallo sgabuzzino dei cinepanettoni, aveva bisogno di un allenatore che sapesse alzare la voce e richiamare all’ordine un giocatore che fresco di rinnovo e con la fascia di capitano, senza far vincere nulla pretende tutto.

Nell’inutile attesa che ciò avvenisse, ha trovato ulteriori, robusti motivi per non delegare a Mancini ulteriori esperimenti, mentre dal canto suo l’allenatore ha mostrato una squadra che nelle amichevoli estive ha preso sei gol dal Tottenham, 4 dal Bayern, 3 dal Psg, solo per fare alcuni esempi.

Si dirà che il calcio estivo conta poco, ma non si capisce come mai le altre italiane vincono e l’Inter perde con valanghe di gol, come mai nella sua storia. D’altra parte la fase difensiva non è il massimo per il Mancio, al punto che la sua Inter del 2008-2009 vide Mihajlovic occuparsi di come affrontare tatticamente la partita in fase difensiva e di non possesso. La maggior parte dei tifosi interisti, da tempo, si era convinta che il problema fosse proprio l'allenatore; di casi come questo ce ne sono ogni anno, l'ultimo è stato quello di Garcia con la Roma. Una volta subentrato Spalletti, la squadra ha cominciato a correre e vincere con gli stessi uomini con cui Garcia perdeva.

Insomma un ottavo posto il primo anno e un quarto striminzito il secondo anno, pur con un organico inferiore solo a Juventus e almeno alla pari con Napoli e Roma, non bastano per avanzare pretese. Così, a due settimane dall’inizio del campionato, l’Inter ha deciso che Mancini non vale 5 milioni di Euro all’anno di stipendio, gli ha dato sei mesi di buonuscita ed ha scelto di portare Frank de Boer sulla sua panchina.

Olandese tutto di un pezzo, difensore dell’Olanda di Cruijff e Van Basten, vincitore di 4 scudetti in sei anni (gli altri due è arrivato secondo), il tecnico scelto non ha una particolare conoscenza del calcio italiano, se non per aver sconfitto due volte il Milan da giocatore e allenatore proprio a San Siro. Candreva e Banega hanno poi aggiunto indubbia qualità ad una squadra già dotata di livello, anche se per Mancini non era abbastanza.

Quella di De Boer è una scommessa, ma non di quelle impossibili. De Boer sa far giocare bene le sue squadre, è molto attento alla fase difensiva, valorizza i talenti e sa vincere. Il contratto che lo lega all’Inter produce un risparmio di 3,5 milioni a stagione e lascia il cammino aperto in due direzioni: sia l’apertura di un percorso triennale, sia il traghettamento verso Pablo Simeone nel 2017-2018 sulla panchina nerazzurra. Il suo, non quello di Mancini, sarà il ritorno a casa del figliol prodigo.

di Fabrizio Casari

Alla fine, dopo i vari Mr. Bee ed associati, Mendes e aggregati, la telenovela sulla vendita del Milan è finita. Firmato l’atto preliminare di vendita per la somma di 740 milioni di Euro, al lordo dei debiti (220 milioni), la squadra che fu il trampolino di lancio per l’immagine vincente di Berlusconi è passata definitivamente nelle mani cinesi. Non un gruppo privato ma la Sino Europe Investment, partecipata di Haixia Capital, un fondo statale che non può muovere quelle cifre senza il benestare del governo, ovvero dello stesso residente Xi Jinping. Ironia della sorte, il più grande paese “comunista” si prende un pezzo pregiato dell’ultimo castello anticomunista.

Sotto il profilo romantico non deve essere stato semplice l’addio di Silvio Berlusconi alla sua creatura calcistica, verso la quale non ha lesinato sforzi finanziari. Ma poprio Berlusconi ha riconosciuto l’impossibilità di tenere il confronto con i livelli finanziari necessari per il calcio di oggi e, da qui, la necessità di cedere.

C’è da ricordare però come proprio l’ingresso di Berlusconi nel Milan abbia dato inizio ad un’epoca di spese folli che ha stravolto le consuetudini di mercato delle squadre. Proprio la corsa ad acquistare a cifre fino a quel momento impensabili per un trasferimento di giocatori ebbe come conseguenza l’inizio di una era di follie economiche ed aprì un fossato finanziario tra le squadre più forti e quelle minori impossibile da colmare tecnicamente o agonisticamente.

Ma non solo di denaro si tratta, bensì della perdita di utilità del Milan per le sorti dell’impero berlusconiano e, parallelamente, ha avuto il suo ruolo anche una gestione ormai davvero lacunosa. Sebbene infatti la sua presidenza abbia riempito la bacheca di Milanello di titoli ad ogni livello, c’è da evidenziare come negli ultimi anni sia stato impossibile ripetere i successi del ventennio precedente.

La riduzione significativa di liquidità, unita ad una errata sovrapposizione del management, poco intelligentemente miscelato tra i vecchi dirigenti e la famiglia (stanca di veder dilapidare il loro prossimo patrimonio da un padre ormai visibilmente non in grado di controllare e dirigere le mosse) ha condotto infatti la squadra in una dimensione davvero non all’altezza della sua fama e del suo pedigree.

Da Seedorf a Inzaghi fino a Brocchi, il Milan è apparso sempre più una squadra modello vecchie glorie. Le sesse campagne di rafforzamento sono sembrate più attente agli avanzi delle altre squadre (Inter in particolare, che ha riempito di somari la stalla dei cavalli di razza rossoneri) che ad una vera e propria strategia di miglioramento dell’organico. In particolare, da Ronaldo a Vieri, da Favalli a Poli, finendo con la follia Balotelli, si è operato nella speranza di ripetere il miracolo di Pirlo, dimenticando che i miracoli riescono una volta sola. Idem con la passione per i cavalli di ritorno, da Shevchenko a Boateng, che sono partiti da tigri e tornati da gattoni.

Parallelamente alle finanze il Milan è apparso ormai orfano del suo tocco magico, che forse – più che a Galliani, sempre celebrato ruffianamente dai berluscones redazionali – apparteneva proprio a Berlusconi. Il Cavaliere non era un grande competente di calcio, ma sapeva scegliere uomini e situazioni in virtù di uno straordinario intuito vincente, del resto ampiamente sperimentato in politica e affari.

Dunque Milano cambia proprietà calcistica. Dopo la cessione dell’Inter prima a Tohir e poi ai cinesi del Suning, ora anche l’altra sponda calcistica della città parlerà cinese. Ma le due operazioni sono simili solo in apparenza. Se nel caso dell’Inter si può parlare di un passaggio di proprietà di un marchio glorioso e vincente, nell’uscita di scena della famiglia Moratti con il carico di passioni e successi inanellati e trasmessi da padre a figlio, in quello del Milan c’è di più: si deve aggiungere anche l’elemento di traino politico e d’immagine che i successi rossoneri fornirono all’avventura politica ed imprenditoriale del Sultano di Arcore.

E non è un caso che parallelamente alla fine di Forza Italia ed alla volontà di cessione delle sue televisioni (solo la Mondadori pare resistere alla dismissione continua) accompagna ora la cessione dell’altro brand con cui compose il suo trittico vincente. L’impero berlusconiano ha ceduto il passo al celeste impero.

di redazione

Cristiano Ronaldo ha pianto due volte ieri sera. La prima a 20 minuti dall’inizio della finale contro la Francia, la seconda al 120esimo. Contro ogni pronostico, il suo Portogallo si aggiudica questi Europei 2016, conquistando il primo trofeo della sua storia. E lo fa nel modo più incredibile: senza vincere nemmeno una partita entro i 90 minuti fino alla semifinale, andando a giocare la partita decisiva a Parigi, nel giardino di casa dei super-favoriti galletti.

A decidere la gara, al quarto minuto del secondo tempo supplementare, è un attaccante sconosciuto ai più: tale Èder, l’anno scorso allo Swansea, che inizia la finale dalla panchina e la finisce da eroe, scaricando in porta un destro imprevedibile da 25 metri, su cui hanno più di una responsabilità sia i difensori sia il portiere Lloris.

Ma la notizia ancora più incredibile è che il Portogallo raggiunge questo risultato senza l’unica stella della sua formazione, nonché unico superstite di quella sciagurata finale europea del 2004 persa in casa contro la Grecia. Stavolta Cristiano Ronaldo guarda quasi tutta la gara dalla panchina, costretto a uscire per infortunio a nemmeno metà del primo tempo dopo un fallo di Payet.

La stella del Real lascia il campo in lacrime e a quel punto per i francesi sembra davvero una passeggiata. Viene da pensare abbia ragione François Hollande, che prima della gara aveva distillato una perla con la proverbiale umiltà francese: “Gliene facciamo tre”.

In effetti, almeno nei 90 minuti, i bleu potrebbero farne tranquillamente almeno quattro. Sennonché devono fare i conti con una serata memorabile di Rui Patrìcio, che si rivela insuperabile. Il portiere portoghese, a mani basse il migliore in campo, salva su un colpo di testa di Griezmann e su una botta ravvicinata di Sissoko (il migliore dei suoi) nel primo tempo, mentre nella ripresa si supera su Giroud lanciato a rete e su un’altra fucilata di Sissoko, stavolta da lontano.

I francesi, però, ci mettono del loro. Al di là degli errori sotto porta (clamorosi il colpo di testa sbagliato da Griezmann nella ripresa e il palo da un metro preso da Gignac al 91esimo), i padroni di casa non costruiscono gioco. Pesano alcune mosse tattiche incomprensibili di Deschamps, in particolare la scelta di tagliare fuori dal gioco Pogba parcheggiandolo davanti alla difesa.

Quanto al Portogallo, è riuscito a vincere l’ennesima partita giocando più o meno a caso, ma rimanendo sempre compatto in fase difensiva, dove a spaventare gli avversari c’è un cane da guardia del calibro di Pepe. Ma l’uomo in più della finale, oltre al portiere, è Joao Mario, che corre davvero tanto e consente ai suoi di alleggerire a più riprese la pressione dei francesi. Poi, a scrivere la morale della favola, ci pensa il destro da fuori di un Carneade alto un metro e 90.

Si chiude così un’edizione degli Europei francamente brutta, caratterizzata da un tasso tecnico particolarmente basso e da un’organizzazione ai limiti del ridicolo, capace di produrre il tabellone post-gironi più sbilanciato che la storia ricordi. Eppure, la finale a sorpresa lascia a tutti i non-francesi la sensazione di aver ascoltato una piacevole favola della buonanotte, simile a quella scritta un paio di mesi fa dal Leicester in Premier League.

L’immagine iconica è senz’altro quella di Ronaldo che, zoppicante e con il ginocchio fasciato, barcolla per l’area tecnica incitando i suoi con una partecipazione emotiva che raramente si vede nelle star più patinate del calcio. Ora lui e Pepe, freschi di vittoria in Champions League con il Real, sono campioni d’Europa in tutti i sensi possibili.


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