di Cinzia Frassi


"Censurare la satira -in nome del cattivo gusto o di altri principi volatili e capziosi - è censurare le opinioni. E' fascismo." Così scrive nel suo blog Daniele Luttazzi l’indomani dell’ennesima censura. Sembrava una stagione ormai lontana quella dell'editto bulgaro che cacciò il comico dalla Rai nel 2002 e che mise la parola fine al programma pungente Satyricon. Era il periodo nero della libertà di informazione e di satira che ha fatto vittime illustri come Enzo Biagi, anche se oggi chi gettò il sasso nasconde la mano. Oggi ci risiamo e, dopo la chiusura del programma, Luttazzi sposta il set all’Ambra Jovinelli di Roma. Forse lì è la presenza del sipario a garantire uno spazio libero di rappresentazione satirica della realtà che ci circonda. Il risultato oggi è che il comico continuerà in teatro il suo lavoro e una denuncia dello stesso per ottenere il sequestro probatorio di quanto girato sotto la voce Decameron, che sia andato in onda oppure no.

di Sara Nicoli

Lavoravano 16 ore al giorno e chi si rifiutava perdeva il posto. Avevano accettato tutti di fare turni massacranti anche se sapevano che la Thyssen Krupp di Torino avrebbe comunque chiuso i battenti entro il prossimo settembre 2008. E quel reparto che è saltato per aria l’altro giorno, la linea 5 delle ex Ferriere che dopo sembrava una città bombardata dal napalm, avrebbe mandato a casa tutti entro la fine di febbraio. Il fuoco di giovedì notte si è portato via l’elite della laminazione a freddo, anche se poi i forni sono a mille gradi e passa e qualcuno si mette pure a fare i distinguo sul se si possa definire o meno un lavoro usurante. Se ne sono andati in quattro, per ora, ma non si sa come finirà davvero. Erano figure preziose di operai specializzati che l’azienda aveva sottoposto a maxi straordinari perché in ritardo su una commessa e non voleva pagare la penale. Il tutto sotto la minaccia di non rinnovare i contratti a Terni, dove gran parte della forza lavoro si sposterà dopo settembre. Perché la chiusura della Thyssen di Torino ha salvato quella di Terni, dove ci lavorano in 3 mila e 500 e quando si deve far di conto su chi mandare a casa le cifre contano; meglio i 400 di Torino che mettere i due terzi di una città umbra in cassa integrazione.

di Agnese Licata


1.041 nati in meno; più nascite premature e parti trigemellari; aumento delle donne costrette a rinunciare a uno dei feto per permettere agli altri di svilupparsi e vivere; incremento del “turismo sanitario”. Sono questi i risultati che la legge 40, la legge sulla procreazione assistita, ha brillantemente ottenuto da quando, il 19 febbraio 2004, è stata approvata dal Parlamento italiano. Diciotto contestatissimi articoli pensati e scritti dal centrodestra, ma votati da una maggioranza trasversale (al Senato il 62 per cento degli esponenti della Margherita votò in modo favorevole). Fin dalla presentazione del disegno di legge, molti medici erano stati chiari: con un testo del genere si rischia di ostacolare invece che favorire la nascita di nuove vite. E, infatti, a due anni dalla sua entrata in vigore, dopo la tanta sofferenza testimoniata attraverso i media da centinaia di aspiranti genitori, anche i numeri arrivano a dar loro ragione. Mentre si continua ad aspettare la revisione delle linee guida promessa dal ministro alla Salute Livia Turco.

di Lidia Campagnano

E’ commovente il fatto che la manifestazione contro la violenza sessuata (la violenza del genere maschile contro le donne), prevista a Roma per sabato 24 novembre sia stata lanciata dalle giovani. A commuovere è il fatto che, in tempi di politica dal fiato corto e dai ritmi e dalle agende mutuate dal mercato, ci sia chi si propone una rivoluzione. Perché di questo si tratta. Stupri e botte, torture e morte inflitti da uomini a donne costellano la storia dell’umanità, certamente con pause e recrudescenze, speranze di progresso e arretramenti, ma mai avviandosi alla sparizione, quantomeno come proposito, speranza, programma. Perciò dire basta a questo, che costituisce uno stile nei rapporti tra i sessi, significa proporsi di rivoluzionare un orizzonte mai risanato. Le statistiche ci dicono che questa forma di violenza si affianca sul piano quantitativo alle morti sul lavoro e dunque, se le morti sul lavoro sono il marchio dello sfruttamento, le morti da violenza sessuata sono il marchio della convivenza mancata tra uomini e donne, il marchio di una barbarie radicale dalla quale l’umanità non si libera.

di Giovanni Gnazzi

Nove e quindici di un mattino qualsiasi, in un autogrill vicino Arezzo, in una maledetta domenica. Si dice che fosse in corso una rissa tra ultras laziali e bianconeri. Non si sa, nulla è chiaro. Quello che invece è chiaro è che una pattuglia della polizia stradale, che si trova dal lato opposto della carreggiata, in un altro autogrill, a 70 metri di distanza, probabilmente richiamata dalla lite, decide d’intervenire. Lo fa nel modo peggiore. Dapprima correttamente, aziona le sirene, ma subito dopo uno degli agenti decide di esplodere dei colpi di pistola “in aria”, dicono, per “sedare la rissa”. I proiettili, come in numerosi altri casi, invece che andare in aria vanno nel corpo del malcapitato, Gabriele Sandri. Che si trova in un auto la quale, oltre ad essere ad un metro e ottanta o o poco più di altezza e non in aria, secondo le diverse e contrastanti versioni, è ferma o sta lasciando l’autogrill. Dunque: se la rissa è in corso fuori, non si capisce perché i colpi vengono esplosi contro una vettura parcheggiata. Ma quello che più sconcerta è la meccanica degli avvenimenti, cioè la dinamica dell’azione-reazione. Non siamo ancora sicuri che la rissa ci fosse stata (visto che nessuno dei frequentanti dell’autogrill se la ricorda) e, tanto meno, se al momento dell’intervento degli agenti fosse già terminata. Ma in corso o terminata, la domanda che dovrebbe porsi è la seguente: da quale manuale di pubblica sicurezza si evince che le risse si sedano sparando?


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